Gli Stati Uniti sono e restano la potenza mondiale a livello finanziario e il dollaro rimane un punto di riferimento nel mondo, ma in ambito commerciale la strategia economica della nuova amministrazione americana ha tante probabilità di fallire e di trascinare il resto delle economie in una recessione difficile da superare.
In campagna elettorale Donald Trump ha promesso agli americani sia una riduzione delle tasse sia un ritorno della produzione negli Stati Uniti. La prima promessa deve essere evidentemente finanziata, considerando pure il fatto che il disavanzo della finanza pubblica americana è stratosferico. Qui entra in gioco la politica dei dazi commerciali sulle importazioni dagli altri paesi, che serve anche a recuperare risorse finanziarie proprio per finanziare nuovi sgravi fiscali. La spinta alla debolezza del dollaro per contro serve a ridurre il peso proprio del debito pubblico, ma induce conseguenze pericolose perché innesca incertezza sui mercati monetari e finanziari e potrebbe creare le premesse per un abbandono del dollaro quale moneta di riferimento nel mondo.
Indurre le aziende straniere a produrre negli Stati Uniti o a rimpatriare attività economiche sfuggite all’estero, è certamente una dichiarazione seducente nei confronti degli elettori americani ma destinata a produrre probabilmente risultati inferiori alle attese. Primo perché la curva demografica negativa colpisce anche gli Stati Uniti, dove oltretutto l’amministrazione Trump persegue una politica molto restrittiva contro l’immigrazione.
Uno studio di Deloitte indica che la carenza di manodopera negli USA sarà di quasi 2 milioni di lavoratori entro il 2033. Dove andare a prendere la manodopera necessaria per rilanciare la produzione industriale americana? In secondo luogo, a parte il fatto che il costo del lavoro negli Stati Uniti è certamente superiore a quello di molti paesi nei quali le aziende americane ma anche europee hanno delocalizzato la produzione o parte di essa, negli Stati Uniti manca personale qualificato per avviare una decisa industrializzazione. E’ il caso ad esempio della strategica industria dei semiconduttori e basti pensare che solo per avviare a conclusione i progetti di rilancio di questa industria, avviati dalla precedente amministrazione Biden, mancano già oggi oltre 300'000 lavoratori specializzati.
Le prossime settimane e il periodo fino al 2027, anno nel quale avranno luogo le cosiddette elezioni di “medio termine” con le quali le maggioranze alla Camera e al Senato potrebbero cambiare e bloccare l’azione di Trump, ci diranno che ne sarà degli sconvolgimenti provocati dal Presidente USA. Fattore decisivo sarà quello di valutare la reazione degli americani soprattutto se la guerra dei dazi, come sta già succedendo, dovesse provocare un aumento dei prezzi e dell’inflazione, impoverendo proprio quegli americani che da Trump si aspettano un new deal. Intanto entro luglio gli USA dovrebbero negoziare sui dazi con oltre 70 paesi, quando tutti sanno che i negoziati commerciali richiedono anni.
L’incertezza che si è subito creata dopo le prime azioni di politica commerciale decise da Trump è il veleno più pericoloso per le aziende e gli investitori ma pure per i cittadini. Oltre il 60 % del debito americano è finanziato da paesi esteri, in primo luogo la Cina, che ad un certo punto potrebbero mettere in crisi in gigante americano se questo impegno di finanziamento venisse meno.
Al fondo tutto quello che sta succedendo serve a creare un nuovo ordine geopolitico mondiale, che agli occhi del Presidente USA comporta un indebolimento delle istituzioni multilaterali e un disimpegno americano almeno parziale quale poliziotto del mondo. Una spartizione dello stesso fra blocchi controllati principalmente dagli Stati Uniti e dalla Cina, con uno spazio inferiore di rango per la Russia e un’Unione europea in posizione di debolezza. Ma questa visione non considera che la Cina si sta già avviando ad essere la prima potenza economica mondiale e una potenza militare dominante.
Il protezionismo non ha mai prodotto grandi risultati e gli scambi commerciali aperti e la globalizzazione restano punti fermi alla base della prosperità creata negli anni. Non vi sono ragioni per credere che una differente politica economica come la intende l’amministrazione Trump porterà successo in un nuovo ordine economico mondiale.