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Trattative salariali 2026: stabilità prima di tutto

   
AITI
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La tornata salariale 2026 si apre in un contesto del tutto particolare. La decisione degli Stati Uniti di imporre dazi del 39% su gran parte delle esportazioni svizzere ha cambiato radicalmente le prospettive per l’industria e, di riflesso, per la discussione sui salari. A essere in gioco non sono soltanto i margini aziendali, ma soprattutto la salvaguardia dei posti di lavoro e la capacità della Svizzera di mantenere attrattiva la propria piazza industriale.

Come sottolinea l’Unione svizzera degli imprenditori (USI) – associazione mantello alla quale anche AITI è affiliata – oggi serve stabilità, non rivendicazioni eccessive. I sindacati hanno avanzato le consuete richieste di adeguamento salariale, invocando l’aumento del costo della vita. Travail.Suisse, in particolare, ha parlato di un incremento del 2%. Tuttavia, già prima dello “shock” dei dazi tale rivendicazione appariva sproporzionata: la congiuntura restava fiacca, mentre l’inflazione stimata dal KOF per il 2026 si aggira appena attorno allo 0,5%. Ora, con la nuova pressione esterna, la richiesta rischia di essere del tutto irrealistica.

Fino all’estate scorsa i segnali erano incoraggianti: le imprese, pur in un contesto economico debole, si dichiaravano disposte a riconoscere aumenti nominali dell’1,3%. Considerando la bassa inflazione, ciò avrebbe comportato una crescita reale del potere d’acquisto. L’obiettivo dei datori di lavoro restava infatti quello di attrarre e trattenere i collaboratori, anche in un mercato del lavoro reso sempre più difficile dalla carenza strutturale di manodopera.

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Con i dazi, però, molti piani sono stati rimessi in discussione. In numerosi settori la priorità non è più l’aumento delle retribuzioni, bensì la sopravvivenza stessa delle aziende. Aumenti oltre l’1% su base generalizzata non sono oggi sostenibili. Il rischio, in caso contrario, è quello di aggravare la pressione a delocalizzare la produzione verso mercati meno penalizzati.

Non tutte le imprese sono colpite direttamente dalle misure statunitensi. Tuttavia, il clima di incertezza e il rallentamento congiunturale tendono a propagarsi a tutta l’economia. Ciò spiega la maggiore prudenza con cui le aziende si muoveranno quest’anno. A loro favore gioca almeno un elemento: con inflazione bassa, anche aumenti contenuti possono tradursi in un miglioramento del reddito reale per i lavoratori.

Un altro punto importante, sottolineato dall’USI, è che la Svizzera parte da una posizione di forza: la quota salari – cioè la parte della ricchezza prodotta che va ai lavoratori – è tra le più alte a livello internazionale. Inoltre, la carenza di personale qualificato spinge comunque le imprese a “trattenere” i dipendenti anche nei momenti difficili, un fenomeno noto come labor hoarding.

Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro che la tornata salariale 2026 non può essere letta con le lenti degli anni passati. L’argomento secondo cui aumenti generalizzati stimolerebbero i consumi interni non coglie il punto: il problema non è la domanda, bensì uno shock esterno che minaccia la nostra industria esportatrice, colonna portante della prosperità nazionale.

Per questo, l’USI indica tre priorità:

  1. Salvaguardare i posti di lavoro.
  2. Mantenere la produzione industriale in Svizzera, nonostante la concorrenza internazionale.
  3. Adeguare i salari in modo differenziato e realistico, evitando derive che comprometterebbero la competitività.

Solo così sarà possibile garantire basi solide per una crescita sostenibile e per futuri aumenti salariali duraturi.

 

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