Negli ultimi decenni, il cosiddetto “Effetto Flynn” – cioè l’aumento progressivo del Quoziente Intellettivo medio della popolazione – è stato osservato in molti Paesi sviluppati, suscitando ottimismo sulle capacità cognitive delle nuove generazioni. Ma dagli anni 2000 questa tendenza sembra essersi invertita: in diversi contesti, i test di intelligenza mostrano risultati in calo. È l’inversione dell’Effetto Flynn. Le cause? Molteplici, ma una delle più dibattute è l’impoverimento del linguaggio.
Ridurre il numero di parole utilizzate, semplificare la grammatica, evitare sfumature verbali e temporali non è un’innocua modernizzazione del linguaggio. È un fenomeno che ha un impatto diretto sul pensiero. La nostra mente si esprime, ragiona, ricorda e progetta attraverso le parole. Se mancano strumenti per distinguere tra ciò che sarebbe potuto accadere e ciò che potrà accadere, si riduce anche la capacità di immaginare, pianificare, riflettere. E questo ha ricadute non solo culturali, ma molto concrete, anche nel mondo del lavoro.
Chi si occupa di formazione aziendale e affianca i giovani apprendisti lo nota ogni giorno: ragazzi capaci, pratici, veloci con gli strumenti tecnici, ma in difficoltà quando devono spiegare con chiarezza un procedimento, raccontare un’esperienza o dare un feedback articolato. Il pensiero rischia di diventare istantaneo, frammentato, privo di profondità. Le emozioni restano intrappolate per mancanza di parole, e i conflitti si amplificano perché non si sa come affrontarli.
Un’esperienza concreta lo dimostra bene. In una piccola azienda meccanica del Mendrisiotto, un formatore aziendale ha notato che un apprendista, molto bravo nel lavoro pratico, si bloccava ogni volta che doveva spiegare a parole cosa aveva fatto. La difficoltà si rifletteva anche a scuola. Per aiutarlo, il formatore ha introdotto un momento settimanale di racconto a voce delle attività svolte. In alcuni mesi, l’apprendista ha preso sicurezza, migliorando sia nella comunicazione sul lavoro che nei risultati scolastici.
Le imprese quindi possono fare molto per aiutare in particolare i giovani apprendisti. Non serve trasformare ogni reparto in un’aula scolastica, ma valorizzare le occasioni di scambio, dare spazio alla parola, alla scrittura, alla narrazione. Chiedere appunto agli apprendisti di raccontare a parole un’attività appena svolta, confrontarsi oralmente su un errore per capire insieme cosa si sarebbe potuto fare, scrivere brevi relazioni settimanali: tutto questo aiuta ad allenare la mente, a dare forma ai pensieri. Anche il modo in cui i responsabili comunicano fa la differenza: usare frasi complete, spiegare termini tecnici, evitare sigle opache è un gesto di inclusione cognitiva.
Non si tratta di tornare indietro, ma di restituire centralità a uno strumento – la lingua – che modella il pensiero e incide direttamente sulla qualità del lavoro, della comunicazione interna e della capacità di risolvere problemi. Investire nel linguaggio significa investire in collaboratori più consapevoli, più efficaci e più capaci di crescere. È anche questo fare impresa.