Nella sua ultima edizione di metà giugno, il settimanale inglese “The Economist” smonta la propaganda del Presidente USA Donald Trump circa la volontà di aprire o riportare negli Stati Uniti molte fabbriche. Il settimanale inglese la definisce quasi un’ossessione di Trump.
In realtà non si tratta solo di uno degli argomenti più gettonati della campagna elettorale che ha ricondotto Trump alla Casa Bianca. La tentazione degli aiuti di Stato, ancorché formalmente vietata da diverse norme che regolano il commercio internazionale, è tornata in auge, anzi non è mai sparità perché come sappiamo vi sono superpotenze e nazioni, come gli stessi Stati Uniti o la Cina, che delle regole internazionali se ne infischiano. Così, il governo laburista inglese valuta la possibilità di sovvenzionare le bollette dell’energia elettrica degli imprenditori, mentre il primo ministro indiano aiuta finanziariamente i produttori di veicoli elettrici. Anche in Germania il nuovo governo conservatore Merz, dopo aver fatto saltare i limiti imposti al bilancio dello Stato per rilanciare l’economia, non ha escluso incentivi per la produzione di microprocessori e batterie elettriche. Persino nella liberale Svizzera qualche mese fa il Parlamento federale ha ceduto alla richiesta di ridurre le tariffe dell’energia elettrica all’azienda Stahl di Gerlafingen, unica acciaieria elvetica, che rischiava la chiusura, definendo l’azienda impresa “sistemica”, un po’ come le aziende elettriche e dunque meritevole di aiuti provvisori di Stato.
Crescita dell’occupazione, crescita economica e resilienza dell’economia ai diversi accadimenti come pandemie e guerre, ricorda “The Economist”, sono obiettivi lodevoli, ma secondo il settimanale inglese l’idea che promuovere la manifattura industriale permetta di raggiungere questi obiettivi non è fondata e si basa sull’immagine di un’economia moderna che non è del tutto quella reale.
In primo luogo il tema dell’occupazione in fabbrica. I politici sperano che la promozione del settore manifatturiero si traduca in impieghi ben remunerati anche per chi non dispone di alte competenze. Ciò si scontra però con la realtà di un lavoro che proprio in fabbrica diventa sempre più automatizzato e che di fatto richiederà meno manodopera. Ciò non è necessariamente negativo se pensiamo all’inesorabile declino demografico in molti paesi industrializzati e alla mancanza di personale specializzato e non specializzato. Basti comunque pensare che negli Stati Uniti oggi meno di un terzo dei lavori in fabbrica sono svolti da persone prive di un diploma superiore come una laurea.
Una seconda considerazione è data dal fatto che l’incidenza della manifattura sul prodotto interno lordo resta contenuta. In India ad esempio parliamo di un 15 per cento e in genere cifre al di sotto del 20 per cento sono una realtà in molti paesi industrailizzati, Svizzera compresa. Queste cifre sono inequivocabili e ci indicano che l’economia moderna si è progressivamente indirizzata ai servizi. Ma è anche vero che nell’analisi bisogna tenere sufficientemente conto del fatto che industria significa prima di tutto anche ricerca e innovazione, ciò che si ribalta positivamente su diversi altri settori economici. Grande è inoltre la capacità della manifattura di generare indotto economico in altri settori dell’economia.
In terzo luogo, come ricorda ancora “The Economist”, qualcuno si illude che sia sufficiente promuovere il modello cinese fatto di pesanti aiuti di Stato ai settori economici per replicarne il successo. Prima di tutto, anche in Cina la quota parte della forza lavoro impiegata nella manifattura è ai livelli degli Stati Uniti, quindi al di sotto del 20 per cento della manodopera.
E’ vero che l’industria pesa per il 29 per cento sul PIL cinese ma ciò deriva piuttosto dall’ampiezza dei comparti industriali e non da una vera e propria strategia manifatturiera del Governo centrale. Inoltre, parte dell’importanza dell’industria in Cina è assorbita al proprio interno, a differenza ad esempio dell’Europa dove l’industria significa prima di tutto esportazione verso l’estero.
Detto tutto ciò, l’industria nel mondo resta un settore strategico e determinante di ogni economia. Reindustrializzare un paese che non lo è più o non lo è mai stato è opera destinata probabilmente al fallimento. Così come gli aiuti di Stato non sono una soluzione perché mantengono in vita settori e aziende destinate a soccombere. E la globalizzazione non è affatto destinata a tramontare. La pandemia e i conflitti bellici hanno dimostrato che il mondo è un’economia globalizzata e che è illusorio “produrre tutto in casa”. La Cina ad esempio produce almeno il 50 per cento di tutte le componenti utilizzate nell’industria mondiale e sarà così anche in futuro. Gli Stati Uniti nei decenni scorsi hanno dismesso interi settori industriali e hanno dunque perso anche competenze. Senza di queste ogni processo di reindustrializzazione fallisce, ma anche la presenza di competenze non è una garanzia di successo quando hai dei competitori che per livello delle competenze e ampiezza delle attività sono in grado di sbaragliare il mercato.