Oggi molte aziende usano strumenti di intelligenza artificiale per gestire la selezione del personale. Curriculum e lettere motivazionali vengono letti da software che analizzano le parole chiave, confrontano i profili con la job description e calcolano un punteggio di corrispondenza. Ma dove ci porta questa strategia?
Oggi molte aziende usano strumenti di intelligenza artificiale per gestire la selezione del personale. Curriculum e lettere motivazionali vengono letti da software che analizzano le parole chiave, confrontano i profili con la job description e calcolano un punteggio di corrispondenza. È un modo per snellire i processi, risparmiare tempo, evitare errori umani.
Il punto è che anche i candidati, sempre più spesso, usano l’intelligenza artificiale per farsi “notare”: riscrivono il CV, ottimizzano le parole chiave e si fanno suggerire da ChatGPT come rispondere a un annuncio. Questo conduce a far sì che la selezione del personale si trasformi in una vera e propria guerra tra intelligenze artificiali. La battaglia non si svolge più in un ufficio, in un’officina, in uno studio tecnico, ma in un server o in un algoritmo. E il vero criterio di selezione non è più la competenza tecnica o l’esperienza concreta di chi si candida, ma il suo grado di alfabetizzazione digitale: chi sa usare meglio l’AI passa il primo filtro; chi non la conosce può restare escluso, anche se magari è il profilo ideale per quel ruolo.
Questo, particolarmente in ambito industriale, può diventare un problema serio. Perché se un’azienda cerca un buon meccanico, un esperto di manutenzione, un elettricista, un saldatore o un tecnico CNC, il valore che si deve individuare non sta nella forma in cui si presentano i suoi documenti, ma nelle sue mani, nella sua esperienza, nel suo sapere fare.
È qui che la provocazione ci sta tutta: l’AI è in grado di valutare se su un CV ci sono ditate di unto? Quelle che raccontano più di mille parole ben scritte, ma magari suggerite da un algoritmo? Perché se l’intelligenza artificiale diventa il primo (o peggio: l’unico) filtro di selezione, rischiamo di scegliere ottimi operatori digitali ma pessimi tecnici. Curriculum perfetti, ma redatti da mani inesperte.
La questione non è solo pratica. È politica, nel senso più ampio del termine: riguarda le scelte che un’economia deve fare per garantire sostenibilità e continuità al proprio capitale umano. Per esempio, offrire a tutti la possibilità di essere ugualmente competitivi fornendo formazione a tappeto a tutti i lavoratori per colmare questo divario tecnologico ingiustificato. Ma d’altra parte anche informare le imprese, facendo capire che non tutti devono diventare esperti di AI per svolgere bene i propri compiti. L’alternativa è veder proliferare nel mondo del lavoro processi di selezione che escludono i più competenti solo perché meno “ottimizzati”, e includono i più abili a simulare competenze. Una distorsione che può generare costi nascosti e disfunzionalità gravi a lungo termine.
Per tutto questo, serve una riflessione attenta e condivisa. L’intelligenza artificiale è un’opportunità, ma va usata con criterio. Perché anche l’AI, e diversi casi accaduti negli ultimi anni lo dimostrano, è soggetta a errori sistematici con conseguenze anche gravi.
In un futuro mondo ideale, a parità di alfabetizzazione digitale tra aziende e candidati, l’elemento determinante tornerebbe comunque a essere l’umano: chi ascolta, chi percepisce, chi sa distinguere una frase generata da un algoritmo da una vera storia di vita e di lavoro. A riprova del fatto che in fondo — e per fortuna — le migliori assunzioni continuano a farle le persone.