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Il settore fast fashion ai tempi del COVID-19

   
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L’emergenza coronavirus ha toccato le vite di chiunque, di qualsiasi azienda e di qualsiasi settore economico, industria del fast fashion compresa.

Ma cosa si intende con fast fashion? Il termine, nato tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, va ad indicare il settore dell’abbigliamento che realizza capi di bassa qualità a prezzi ridotti, con continue nuove collezioni in tempi brevissimi.

La pandemia ha causato la chiusura forzata delle attività commerciali e, per forza di cose, i negozi fisici dei colossi del fast fashion – presenti in tutto il mondo e in tutte le città – non sono stati risparmiati.

AITI_fast fashion ai tempi del covid-19

Conseguenza certa è un drastico calo delle vendite.

Un esempio lampante è il colosso svedese dell’abbigliamento H&M, che durante il coronavirus ha registrato un calo delle vendite in negozio pari a circa il 50% rispetto all’anno precedente. A metà aprile l’80% dei suoi negozi, sparsi per tutto il mondo, erano chiusi a causa del COVID-19 (oggi la quota è scesa al 18%).

A far compagnia al colosso svedese c’è Inditex, proprietaria di marchi come Zara, Pull&Bear, Bershka, Stradivarius, Massimo Dutti e altri. Il gruppo ha avuto nel complesso un calo delle vendite del 44%.

A leggerle così, queste percentuali fanno presagire un anno molto difficile per i due colossi citati.

Invece, a venir loro in soccorso vi è la tecnologia, che ha svolto un ruolo chiave in questo periodo. Le vendite parzialmente azzerate durante il lockdown nei negozi sono state compensate dall’e-commerce. Inditex, ha visto salire del 50% le sue vendite online tra febbraio e aprile 2020, mentre H&M ha avuto un aumento del 32% nel secondo trimestre.

Gli esempi di H&M e Inditex ci insegnano che il commercio online e/o l’integrazione di nuove tecnologie sono il futuro: bisogna sfruttare il grande potenziale dell’e-commerce abbinato al negozio fisico.

AITI_fast fashion au tempi del covid-19_commercio online

Un altro importante marchio dell’abbigliamento del fast fashion è il gigante irlandese Primark, nato nel giugno del 1969 a Dublino. A seguito della chiusura forzata data dal coronavirus, Primark ha visto le vendite azzerarsi completamente, vista l’assenza di un e-commerce. Il fermo dei magazzini e dei negozi è stato valutato in circa 1.5 miliardi di sterline di capi invenduti. L’intenzione dell’azienda era quella di fare una massiccia campagna di saldi per poter vendere il più possibile gli articoli rimasti fermi. La fiducia di Primark verso il commercio classico è stata in parte ripagata: alla riapertura dei punti vendita fisici si sono formate lunghe code di consumatori impazienti di per poter entrare a fare shopping. Questo può spiegare come mai Primark punti esclusivamente sui negozi fisici, senza nessuna integrazione con l’e-commerce. È proprio il suo modello di business ad essere totalmente legato al concetto del commercio classico senza proprio prendere in considerazione quello online. Secondo Primark, l’apertura di un canale online comporterebbe un aumento dei costi: tra spese di stoccaggio, marketing, spedizione, distribuzione, customer service e altro ancora, l’apertura di un e-commerce non converrebbe.

Quale sarà però la nuova moda del futuro? Shopping virtuale online? I negozi fisici scompariranno? I capi di abbigliamento sono diventati un bene usa e getta?

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