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Il paradosso del commitment

   
AITI
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Il commitment, ossia il forte senso di dedizione e responsabilità che spinge una persona a impegnarsi nel proprio lavoro, può sembrare un valore indiscusso, ma nasconde un paradosso. Nel mondo del lavoro molti manager si impegnano a dare il buon esempio, dimostrando appunto grande dedizione e impegno. Ma proprio questo comportamento, che muove da nobili intenzioni, può generare un effetto collaterale inaspettato: una sorta di "coercizione implicita". È, questo, il paradosso del commitment: il manager finisce per esercitare una pressione non dichiarata sui propri collaboratori, costringendoli a seguire il suo ritmo di lavoro, anche quando questo non è richiesto, né esigibile.

Questo fenomeno può verificarsi anche in contesti in cui il leader è apprezzato e stimato. I collaboratori, ispirati dalla dedizione del proprio manager, possono sentirsi inconsapevolmente obbligati a emularlo, con conseguenze negative sul loro benessere, perché la linea sottile tra l’ispirazione e l’imposizione diventa difficile da tracciare.

Per molti manager, il lavoro rappresenta una realizzazione personale, una parte essenziale della propria identità e del proprio percorso di vita. Ma per numerosi collaboratori, il lavoro è semplicemente un mezzo per guadagnarsi da vivere, e i veri interessi personali si sviluppano al di fuori del contesto professionale. Questa differenza è del tutto legittima oltre che comprensibile, ma può portare a fraintendimenti profondi se il manager finisce per aspettarsi il suo stesso livello di impegno da parte dei suoi collaboratori, ignorando le loro situazioni, casistiche e priorità personali.

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Il manager che invia e-mail a tarda sera, che si interessa dell’andamento degli affari durante le ferie o porta avanti progetti durante il weekend, può creare un’atmosfera in cui i collaboratori si sentono obbligati a comportarsi in modo analogo, e generare l’implicita aspettativa che i dipendenti siano sempre reperibili, ignorando il diritto al riposo e alla disconnessione. Una condotta che, oltre a essere spesso vietata da normative sul lavoro, mina l'equilibrio tra vita personale e professionale, causando stress e demotivazione; rischiando, con il tempo, di compromettere il benessere del team, e di trasformare quella che era una dedizione positiva in una fonte di tensione.

In questi casi, i collaboratori non esplicitano il proprio disagio, magari solo per la paura di sembrare meno performanti. Così, la trasparenza diventa difficile da ottenere, e si sviluppa un ciclo vizioso in cui la pressione cresce senza che nessuno se ne accorga o si senta libero di discuterne apertamente. Il rischio è che i collaboratori finiscano per sentirsi inadeguati o frustrati, e che la fiducia e la motivazione collettiva vengano progressivamente erose.

La soluzione a questo paradosso sta nella capacità del manager di rispettare i limiti e le differenze tra le persone. I manager devono essere consapevoli che, sebbene il loro esempio possa ispirare, non tutti hanno, né potrebbero avere, la loro stessa relazione con il lavoro.

È essenziale promuovere una cultura che valorizzi l'equilibrio tra vita professionale e personale, che riconosca i bisogni individuali e che rispetti il diritto alla disconnessione. Solo attraverso questa consapevolezza e un dialogo aperto, i manager possono guidare team realmente motivati, evitando di creare pressioni indebite e migliorando al contempo la produttività e il benessere generale.

 

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