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Il nuovo ministro della propaganda

   
AITI
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In un mondo dove tutto è misurabile, anche le emozioni diventano KPI. Gli algoritmi privilegiano ciò che fa reagire su ciò che fa pensare. Ma la comunicazione d’impresa non può ridursi a un esperimento emotivo. Resta la sfida di parlare alle menti senza rinunciare ai cuori.

Il dibattito pubblico è mai stato così acceso. Guerre, crisi economiche e rivoluzioni tecnologiche stanno rendendo reso il nostro mondo instabile e imprevedibile. Questo ci spinge a discutere, a esprimerci, a confrontarci. Eppure, sempre più spesso, con poco o nessun costrutto. Le posizioni finiscono rapidamente per estremizzarsi, trasformando il dibattito in una demonizzazione del nemico più che nella ricerca di un compromesso.

Si inserisce l’interlocutore in un preciso schieramento (destra, sinistra, no-vax, terrapiattisti, pro-pal, capitalisti e così via) e si procede a una condanna a priori, senza più entrare nel merito del contenuto. Siamo divisi su tutto, e affrontiamo i temi della politica, della scienza o dell’ambiente come tifosi di squadre di calcio. In questo contesto, inserire una comunicazione d’impresa seria e costruttiva è estremamente difficile, perché i contenuti riflessivi e informativi non trovano spazio.

Non è la prima volta che ci troviamo in una situazione simile. La storia è piena di conflitti, attraverso i quali la nostra società si è sviluppata. Ma oggi c’è una differenza: possiamo misurare la polarizzazione. Internet e social media sono la nuova “machina ex deus”, un contenitore meccanico che osserva, misura e ricompensa. Ogni clic, ogni condivisione, ogni reazione è un dato. E i dati dicono l’essenziale: più rabbia implica più interazioni; più paura cattura più attenzione; più nemici portano più coesione. Ognuno di noi è rinchiuso in una bolla, entro la quale i social media gli propongono i contenuti sui quali indugia con maggior piacere. In questo modo polarizzano sempre di più la nostra immagine personale del mondo.

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La storia ci aveva già avvertiti. Goebbels sosteneva che per conquistare le masse bisogna “parlare al cuore, non alla testa”. Orwell ci aveva mostrato come il controllo del linguaggio possa diventare controllo del pensiero. Oggi, quelle intuizioni sono diventate dati numerici: gli algoritmi dimostrano in tempo reale ciò che un tempo faceva un ministero — misurano l’efficacia del messaggio, con la precisione del profitto. Ogni volta che un post divide, una parola infiamma o un video genera sdegno, l’algoritmo premia. Non per ideologia, ma per semplice statistica, i contenuti più divisivi diventano i più diffusi: il contenuto polarizzante trattiene gli utenti più a lungo, e così la propaganda alimenta sé stessa. 

A quali emozioni si rivolgono i contenuti virali? Paura e rabbia restano le regine, ma non le sole. Anche desiderio, invidia, orgoglio o speranza hanno i loro picchi di rendimento. Per chi comunica oggi, il rischio è farsi trascinare in questa spirale: semplificare, estremizzare, cercare il nemico. Scorciatoie efficaci, ma anche trappole perfette: più parli alle emozioni, meno lasci spazio al pensiero. E più ti ascoltano, meno ti capiscono. 

Gli algoritmi hanno confermato le intuizioni di Goebbels, ma forse la sfida, per chi comunica oggi, è tornare a parlare alle menti senza rinunciare ai cuori. È riuscire ad allontanarsi da Goebbels, imparando la lezione di Orwell. Continuando a cercare la strada giusta, sperando che prima o poi supereremo questa fase primitiva della comunicazione di massa.

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