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Il nuovo interventismo dello Stato

   
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The Economist, settimanale che certamente non può essere ricondotto alla destra conservatrice, ha lanciato l’allarme: a seguito della pandemia, la tendenza dello Stato a intervenire nell’economia sembra rafforzarsi ulteriormente. Dopo la Seconda guerra mondiale la ricostruzione fu gestita da aziende dello Stato o controllate da esso. Negli anni Ottanta lo Stato almeno in parte si ritirò dalla gestione diretta per diventare l’emanatore delle regole di funzionamento e controllo del libero mercato. Oggi che i cittadini invocano maggiore giustizia sociale e la salvaguardia dell’ambiente sulla terra e in una situazione economica pesante a seguito della pandemia, lo Stato si indirizza ad assumere un ruolo che va oltre quello del controllore o dell’attore attivo.

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I segnali non mancano. Il presidente degli Stati Uniti sta perseguendo un’agenda di protezionismo morbido e sussidi ad alcuni settori economici, mentre la Cina affermando di voler controllare gli eccessi del libero mercato, in realtà punta a mantenere una società prospera ma soprattutto docile verso il potere politico. Anche nell’Unione europea il richiamo dell’interventismo dello Stato non proviene più solo da sinistra. Ma c’è qualcosa di più. Le dieci aziende più tecnologiche al mondo hanno raddoppiato la propria dimensione in pochi anni e sono diventate più grandi e potenti di diverse nazioni. I cittadini sono preoccupati, temono il ritorno dell’inflazione e dunque il ridimensionamento del proprio potere d’acquisto. Considerano la globalizzazione fuori controllo e hanno paura del controllo sociale, oltre quello che è già oggi.

Il nuovo paradigma è quello della sicurezza. Ed è proprio in suo nome che lo Stato pensa sia necessario rafforzare non solo l’apparato legislativo bensì anche indirizzare gli investimenti pubblici e privati. Per sicurezza s’intende naturalmente anche l’autonomia economica, ecco dunque che il governo degli Stati Uniti vuole immettere nel circuito economico 52 miliardi di dollari per lo sviluppo della produzione di semiconduttori negli Stati Uniti. Ciò che appare lodevole e perfino logico, che effetti produrrà a livello geopolitico fra alcuni anni? Quante altre attività economiche saranno considerate strategiche per lo Stato e rientreranno dunque nella sfera dell’indirizzamento pubblico della società?

Il nuovo interventismo dello Stato

La diminuzione dell’efficienza e dell’innovazione potrebbe essere un pericolo reale. Duplicare le catene di approvvigionamento globali è straordinariamente costoso. Il rischio di indebolire la concorrenza è il pericolo maggiore a più lungo termine. Le aziende sorrette dai sussidi presto o tardi si indeboliscono e quelle protette dalla concorrenza forse non tratteranno i propri clienti al meglio. Un'economia in cui politici e grandi imprese gestiscono il flusso dei sussidi non è un'economia in cui prosperano gli imprenditori.

L'ultimo problema è il clientelismo, che finisce per contaminare allo stesso modo gli affari e la politica. Le aziende cercano vantaggio tentando di manipolare il governo: già in America il confine è sfumato, con più ingerenze aziendali nel processo elettorale. Nel frattempo, politici e funzionari finiscono per favorire particolari aziende, avendo in esse investito denaro e speranze. L'urgenza di intervenire per attutire ogni shock crea assuefazione. Nelle ultime sei settimane Gran Bretagna, Germania e India hanno speso 7 miliardi di dollari per sostenere due aziende energetiche e un operatore di telecomunicazioni i cui problemi non hanno nulla a che fare con la pandemia.

Spaventati dalla pandemia e da tante altre cose, rischiamo di risvegliarci in un mondo di brutte sorprese.

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