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Il libero mercato non è più di moda?

   
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Se lo è chiesto recentemente il settimanale inglese The Economist, constatando che oggi e sempre più sembra prendere il sopravvento la cosiddetta “economia nazionale”, una sorta di ideologia protezionistica ricca di sussidi, fortemente interventista e amministrata da uno Stato ambizioso. Fatti mondiali recenti come il Covid e la guerra fra Russia e Ucraina, ma anche la transizione energetica e l’aumento generale del costo della vita richiamano a gran voce l’interventismo dello Stato. Non che questo fatto non abbia le sue ragioni regolatorie, ma il fatto che questi avvenimenti si manifestano insieme e in poco tempo sta accelerando la messa nell’angolo del libero mercato, che per molto tempo e finora ha costituito la base dell costruzione del nostro benessere.

Il libero mercato non è più di moda

The Economist è convinto che il nazionalismo economico sarà una delusione e il fatto di sovraccaricare lo Stato alla fine porterà alla sua stessa fine.

Al centro dell’economia nazionale c’è la convinzione che il protezionismo sia il modo migliore per fare fronte alle difficoltà create dai mercati aperti. La Cina e il suo capitalismo di Stato hanno convinto molti che la libera circolazione delle merci e delle persone è un danno, così come il Covid ha convinto altri che le catene globali dell’approvvigionamento sono un rischio e allo stesso modo un danno.

Ciò che preoccupa ulteriormente è dato dal fatto che il protezionismo si sta accompagnando a una massiccia crescita della spesa pubblica e in ciò anche alcune parti dell’economia non disdegnano di essere foraggiate da soldi pubblici. Non da ultimo, l’interventismo economico dello Stato è accompagnato da un’espansione dell’attività regolatoria dello Stato stesso. Ciò avviene ad esempio per “drogare” la transizione energetica ma sta emergendo anche per fenomeni nuovi come la regolamentazione futura dell’uso dell’intelligenza artificiale.

Come ricorda The Economist, contrariamente all’opinione comunemente accettata, il Covid e la guerra in Ucraina hanno dimostrato che i mercati affrontano gli shock meglio di quanto facciano i pianificatori. Il commercio globalizzato ha fatto fronte a enormi oscillazioni della domanda dei consumatori: nel 2022 l’economia tedesca non ha subito alcuna calamità poiché è passata rapidamente dal gas russo ad altre fonti di energia. Al contrario, i mercati dominati dallo Stato, come la fornitura di proiettili per l’Ucraina, sono ancora in difficoltà. Proprio come le vecchie lamentele sul commercio con la Cina – che ha incrementato i redditi reali degli americani – e le lamentele sulla presunta fragilità della globalizzazione, hanno costruito una cattedrale di paura su un granello di verità.

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Un altro difetto dell’economia nazionale è quello di sovraccaricare lo Stato. I governi stanno perdendo ogni controllo proprio quando hanno bisogno di ridurre la spesa sociale. L’invecchiamento della popolazione grava sui bilanci con costi aggiuntivi per pensioni e assistenza sanitaria.

Nonostante i suoi tanti difetti, l’economia nazionale protezionista sarà difficile da frenare. Alla gente piace spendere i soldi degli altri. Man mano che i bilanci pubblici aumentano, gli interessi particolari che se ne nutrono aumenteranno in dimensioni e influenza. È più difficile ritirare la protezione e le agevolazioni che concederle, in particolare con gli elettori più anziani, che hanno meno interesse nella crescita economica.

Quando il cambiamento arriva, può essere sorprendentemente rapido, almeno nelle democrazie. Negli anni settanta la tendenza si volse a favore dei mercati liberi quasi con la stessa rapidità con cui si è rivoltata contro di essi oggi, portando all’elezione di Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

Il compito dei liberali classici è prepararsi per quel momento definendo un nuovo consenso che adatti le loro idee a un mondo più pericoloso, interconnesso e litigioso. Non sarà facile, soprattutto di fronte alla rivalità tra America e Cina. Ma è già stato fatto in passato.

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