Da qualche parte tra i primi vagiti dei nipoti e l’ennesimo titolo di giornale sull’ultima catastrofe in corso, sorge una domanda insistente, quasi ironica per la sua banalità: “come posso essere felice quando il mondo sembra sprofondare?” Se il significato della vita è uno dei dilemmi classici della filosofia, questa domanda rappresenta una sua versione moderna, pratica e per nulla filosofica.
Per anni ci siamo detti che l’obiettivo era essere felici. "Sii felice!" come se fosse il titolo di un film o di un post su Instagram, una specie di norma da rispettare o un mood da impostare ogni mattina con l’aroma del caffè. E per carità, i nipotini ci mettono del loro: ogni sorriso di un bambino è un balsamo per l’anima, uno squarcio di luce tra le fitte nebbie dell’informazione apocalittica che ci circonda. Ma non appena si riaccende la TV o si legge un giornale, ecco che il nostro personale buon umore viene messo alla prova.
Tra una guerra e l’altra (come se fosse uno sport di moda), siamo bombardati di aggiornamenti. Alcuni giorni c’è persino da chiedersi se tra tutte queste tragedie si nasconda un senso dell’umorismo perverso: la realtà sembra uno di quei film in cui gli sceneggiatori si sono fatti prendere la mano. E noi? Rimaniamo qui, con il nostro desiderio di felicità in una mano e il bisogno di consapevolezza nell’altra.
Dunque, qual è il segreto per continuare a trovare felicità? “Non saperne nulla”, risponderebbe qualcuno cinicamente. Ma come può funzionare una “felicità per ignoranza” quando ci troviamo immersi in una sovrainformazione globalizzata, dove persino il nostro oroscopo ci mette in guardia dalle “energie negative”? Si parla di “apertura mentale,” ma a furia di tenerla aperta, non ci passa forse l’allegria insieme a tutto il resto?
Ed ecco che si comincia a vedere la vita con una lente leggermente sbiadita, come se il mondo fosse passato sotto una patina di grigi. E forse è proprio questo lo scherzo più crudele: il contrasto tra la vita personale, intima e soddisfacente, e quella percezione di un mondo vasto, e decisamente meno allegro.
Un pensiero sardonico si affaccia allora: “Forse la felicità è solo un buon marketing”. E forse la consapevolezza è il lusso di chi non è stato ancora toccato direttamente dalla tragedia, ma che ha il tempo e il privilegio di stare a guardare e riflettere. A questo punto, entra in gioco un cinismo di natura prettamente difensiva: ci permette di distanziarci un po’ e, paradossalmente, di ritagliarci uno spazio di gioia.
Ironia della sorte, finiamo per cercare distrazioni, piccole gioie quotidiane che ci tengano ancorati a quel concetto di felicità che ci siamo costruiti nel nostro microcosmo. Il problema? È che quelle distrazioni che scegliamo (l’intrattenimento, i viaggi, il wellness) si reggono su strutture complicate e, a tratti, compiacenti. Prendere un volo intercontinentale? Uno schiaffo al cambiamento climatico. Viziarsi con un capo di moda? Finanziamo chissà quale ingiustizia lavorativa. Ma ecco un’altra bizzarra conseguenza del nostro cinismo: più approfondiamo, più ci pare evidente che non esistano risposte semplici.
E allora, cosa fare?
In questa dimensione caotica, si impone una sorta di filosofia personale: accettare che la felicità è una questione fluida e per niente eroica. Forse non è il risultato di uno sforzo immane per risolvere il male del mondo (anche perché, da soli, potremmo avere qualche difficoltà). Al contrario, sta nell’essere presenti, nel godere di ciò che ci circonda senza vergogna. I miei nipoti sorridono, e io con loro.
Ma allo stesso tempo, questo approccio personale è necessariamente intrecciato a una forma di responsabilità. Non possiamo ignorare le tragedie, ma possiamo cercare di essere attivi, consapevoli e parte di un cambiamento, anche se a piccole dosi. Forse non salverò il mondo, ma posso contribuire, anche solo con il mio esempio, a renderlo un po’ più compassionevole. E perché no? Aggiungere una buona dose di acido umorismo, almeno per affrontare ciò che non posso risolvere.
In fondo, la felicità in questo mondo disilluso potrebbe essere semplicemente un grande esercizio di equilibrio. Un po’ come tenere in mano due pesi in apparenza opposti: da un lato la gioia intima e personale; dall’altro, la coscienza di una realtà spesso amara e contraddittoria. Ma va bene così. Questo, forse, è l’unico compromesso che valga la pena accettare.