Le fotografie parlano più di mille parole. Basta scorrere i report annuali di molte aziende ticinesi – e non solo – per accorgersene: i Consigli di amministrazione sono generalmente composti quasi interamente da uomini, spesso con età, formazione ed esperienze molto simili. È questa la “diversità” di cui parliamo da anni? Se dovessimo giudicare dalla realtà, diremmo che siamo ancora ben lontani dall’aver trasformato la Diversity & Inclusion (D&I) da slogan a pratica concreta.
Eppure, paradossalmente, la discussione sulla D&I nei Board non è mai stata così accesa. Tra chi invoca le quote obbligatorie e chi le demonizza come una scorciatoia, il rischio è che ci si perda in un dibattito sterile, dimenticando il punto centrale: la diversità non è una gentile concessione, ma un’opportunità competitiva.
Le quote di genere – introdotte in diversi Paesi e discusse anche in Svizzera – hanno forse il merito di smuovere acque stagnanti, ma non bastano da sole a creare vero cambiamento. Anzi, se ridotte a mero adempimento numerico, rischiano di produrre un effetto cosmetico: qualche volto nuovo nelle foto ufficiali, senza reale impatto sulla qualità delle decisioni. Il problema non è “quante” donne siedono nei Board, ma “quale” diversità riusciamo a portare dentro. Diversità di pensiero, di esperienze, di sensibilità culturale e generazionale. Se ci limitiamo alla matematica dei seggi, rischiamo di mancare l’essenza della D&I.

Il paradosso della modernità
Viviamo in un mondo che cambia a velocità vertiginosa: intelligenza artificiale, transizione ecologica, tensioni geopolitiche, nuovi modelli di lavoro. Eppure i luoghi deputati a guidare le imprese in questa complessità spesso continuano a essere monocromatici, chiusi in cerchie ristrette che parlano lo stesso linguaggio da decenni.
Come può un Board guidare l’innovazione se non riflette la pluralità del contesto in cui opera? Se l’azienda vende a clienti che appartengono a generazioni diverse, a culture diverse, con sensibilità diverse, non è un lusso avere un CdA variegato: è una necessità.
Guardare le foto: un esercizio scomodo ma utile
Provocazione: prendiamo le foto dei CdA ticinesi pubblicate nei report annuali e mostriamole a un gruppo di giovani laureati, a una platea di clienti internazionali o a un team di innovatori digitali. Quale immagine trasmettiamo?
Non serve essere esperti di comunicazione per intuire che un CdA composto al 100% da uomini dai 50 anni in su racconta una storia di chiusura, di distanza dal presente, di sconnessione rispetto alla società reale.
Mettere la diversità al centro della governance non significa aderire a una moda del momento, ma riconoscere un fattore di competitività. I Board che includono profili diversi prendono decisioni migliori, più innovative e più vicine ai bisogni degli stakeholder. La ricerca internazionale lo conferma da anni: le aziende più inclusive crescono di più, attraggono più talenti e sono più resilienti.
Allora, la vera domanda non è se “dobbiamo” fare D&I, ma come farla davvero.
- Guardare oltre le quote
Le quote sono una falsa soluzione. Servono processi di selezione trasparenti e aperti che vadano a pescare talenti fuori dalle solite cerchie. - Coltivare pipeline di leadership
Non si tratta solo di “inserire” qualcuno nel Board, ma di far crescere nuove generazioni di leader – uomini e donne – in grado di portare prospettive diverse. Mentoring, programmi di sviluppo e succession planning sono strumenti chiave. - Valorizzare la diversità in senso ampio
Non solo genere, ma età, background professionale, nazionalità, sensibilità culturale. La ricchezza nasce dall’incontro di differenze reali. - Misurare e rendere conto
Ciò che non si misura, non si cambia. Inserire KPI sulla D&I nelle valutazioni di governance significa renderla parte integrante della performance aziendale.
La Diversity & Inclusion nei Board non è una battaglia ideologica né un vezzo da progressisti. È una questione di efficacia, di reputazione, di capacità di guidare l’impresa nel presente e nel futuro. Continuare a pubblicare fotografie di CdA uniformi significa perdere credibilità e competitività. La strada da percorrere è chiara: non fermarsi al numero delle poltrone, ma cambiare davvero cultura, processi e prospettive. Perché la diversità non è un favore a qualcuno: è un vantaggio per tutti.

