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Decodificare la leadership: spunti dalla biologia e dalla psicologia

   
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Negli ultimi 150 anni, la scienza ha ampliato la nostra comprensione del comportamento animale e umano, esplorando meccanismi che guidano relazioni, potere e influenza, molto oltre le scoperte della “scienza della comunicazione”. 

Il fenomeno dell’imprinting, svelato dall’etologo Konrad Lorenz negli anni '30 e '40 del ‘900, ha reso chiaro come, nel regno animale, le prime interazioni tra un individuo e una figura-guida definiscano i legami duraturi e le loro dinamiche. Sebbene specifico dell’etologia, questo fenomeno ci invita a riflettere su come le dinamiche umane, specialmente nella leadership, rispondano a bisogni complessi.

Gli studi sul cervello suggeriscono che la tendenza a cercare un leader affondi le radici fin nella fisiologia. Mentre il cervello rettiliano regola istinti di base come attacco o fuga, il sistema limbico alimenta il desiderio di appartenenza e la neocorteccia consente analisi razionali, la corteccia prefrontale mediale gioca un ruolo cruciale nelle interazioni sociali, valutando gerarchie e connessioni complesse. In tutte queste dinamiche, l'interazione con un leader può essere coinvolta, evidenziando come un leader efficace debba rispondere a bisogni emotivi, cognitivi e istintivi. 

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La psicologia offre, naturalmente, altri spunti interessanti. Freud, attivo nei primi decenni del Novecento, con il suo modello che suddivide la personalità in Es, Io e Super-Io, fornisce strumenti per interpretare la leadership come risposta a istinti primari, mediazione razionale e incarnazione di ideali. Negli anni '50 e '60, Eric Berne, con l’Analisi Transazionale, mostrò come le relazioni oscillino tra stati dell’Io: Genitore (normativo e protettivo), Adulto (razionale e pragmatico) e Bambino (stimolante e creativo). Questi modelli non spiegano completamente la leadership, ma possono evidenziarne diverse sfaccettature relazionali. La teoria dell’attaccamento di John Bowlby, sviluppata a partire dagli anni '50 del '900, aggiunge un’altra prospettiva. Bowlby descrive come una “base sicura” durante l’infanzia, rappresentata da una figura affidabile (caregiver), favorisca la fiducia. Così, un leader efficace può fungere da base sicura per il gruppo. Gli stili di attaccamento dei singoli influenzeranno la loro vita relazionale, e di conseguenza anche il rapporto con i leader: chi è sicuro, si presenterà in modo autonomo e fiducioso; chi è ansioso oscillerà tra entusiasmo eccessivo per un elogio e depressione per una critica; chi è evitante mostrerà ostilità o distanza; chi è disorganizzato potrà reagire in modo incoerente. 

Tutti questi studi non solo possono arricchire la comprensione della leadership, ma anche fornire strumenti concreti per svilupparla. Decodificare i meccanismi che la rendono necessaria ed efficace potrà permettere di trasformarla in una competenza modificabile e trasmissibile. 

Al di là delle predisposizioni naturali, la leadership potrà quindi essere sempre più affinata e sviluppata attraverso apprendimento e pratica. E forse questa è la vera lezione: guidare con consapevolezza e umanità è una capacità che possiamo coltivare.

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