Dal mese di gennaio tutta l’economia occidentale e in particolare quella più legata alle esportazioni, ha vissuto con mano cosa significhi uno stop produttivo di alcune regioni della Cina, dove sono insediati i principali produttori mondiali di componenti che finiscono in numerosi prodotti europei e americani.
Dalla Cina arrivano sul continente europeo tutte le componenti high-tech, materie prime del tessile, della meccanica e delle telecomunicazioni, molte delle molecole utilizzate dal settore farmaceutico, le terre rare, la gran parte delle componenti per la produzione di automobili e tanto altro ancora. Il rallentamento se non il blocco della cosiddetta supply chain è la conseguenza più immediata del coronavirus sulla produzione.
Ma è possibile evitare di ritrovarsi in questa situazione o perlomeno attenuarne il più possibile gli effetti negativi? Da un lato la dipendenza dell’occidente produttivo dalla Cina è il risultato dell’evoluzione geopolitica ed economica degli ultimi trent’anni perlomeno. Ma mentre fino a venti e fors’anche dieci anni orsono la Cina era più facilmente riconoscibile come il paese con bassi costi del lavoro e alla produzione, da tempo la situazione non è più questa. Si va in Cina a per lavorare, produrre ma anche per fare ricerca. Le università cinesi stanno scalando rapidamente la classifica delle migliori università del mondo. Centri di ricerca a livello delle biotecnologie, della meccanica, intelligenza artificiale, telecomunicazioni, ecc. sono presenti in diverse zone del paese.
Dall’altro lato le aziende devono poter contare su risk manager che sappiano monitorare naturalmente i diversi rischi e in particolare quelli legati al cambiamento (clima, invecchiamento della popolazione, pandemie, ecc.), predisponendo i necessari piani “B”, “C” e altro, che significa poi: cosa devo e posso fare in caso di blocco della produzione? Come posso garantire il flusso delle merci? Esistono produttori alternativi in altre parti del mondo e se sì a quali condizioni?
Fabbrica chiusa per quanto tempo?
Non pochi in questi giorni si chiedono come mai non vengano fermate le attività produttive a seguito dell’espandersi della pandemia da coronavirus. Innanzitutto occorre dire che nessun paese ha mai fermato completamente la produzione, non lo sta facendo l’Italia, il paese più colpito in Europa e non lo ha fatto la Cina nelle zone di fatto sigillate nelle scorse settimane.
Vi sono numerosi prodotti che non si può smettere di produrre: farmaci, prodotti medicali, generi alimentari, spedizionieri, prodotti chimici, smaltimento dei rifiuti, ecc. Inoltre, molti macchinari non possono essere semplicemente accesi o spenti pigiando un interruttore. Ad esempio, un reattore utilizzato nella produzione farmaceutica necessita di diverse ore per poter entrare in funzione e il blocco provoca costi molto ingenti. E i macchinari che si fermano devono poi essere sottoposti a verifica del software di funzionamento e sono maggiormente soggetti a rotture.
E se è sbagliato pensare che una fabbrica possa essere accesa o spenta con un interruttore, bisogna anche essere consapevoli del fatto che una volta riavviata l’attività per arrivare al cosiddetto “pieno regime” passa diverso tempo. Infatti, non si tratta solo di far funzionare le macchine bensì riavviare tutta la filiera produttiva e la logistica, i trasporti, ecc.
Insomma, per così dire, i problemi del coronavirus sono certamente nel presente ma lo saranno ancor di più nel futuro quando le aziende saranno chiamate a tornare alla normalità, solo che non è detto che la clientela esisterà ancora.
Cosa ci aspetta?
Una parola sola: recessione. Non potremo evitare una contrazione del prodotto interno lordo mondiale. La riduzione del prezzo del petrolio è il primo indicatore della grande frenata della produzione. La ridotta domanda di beni e servizi è già realtà e lo sarà ancor più nei prossimi tempi.
Il risk manager dell’azienda deve monitorare i diversi paesi e valutare quali di questi hanno un impatto sulla supply chain. Ma si porranno anche delle questioni di fondo. Oggi produciamo just in time, senza più magazzino o quasi. In tempi di coronavirus appare evidente che le scorte farebbero comodo. Quello che sta succedendo nel mondo ci porterà a rivalutare la globalizzazione più in generale e i metodi di produzione più in particolare? Parte della produzione, come è già accaduto, tornerà in Europa per evitare il rischio Cina di queste settimane?