In un mondo che confonde armonia con verità, anche le macchine imparano a darci sempre ragione. La sycophancy digitale alimenta un consenso senza pensiero, un linguaggio che non reagisce più alla realtà. Ma dove tutto tende a compiacere, il pensiero critico diventa la nuova soft skill per restare umani.
Assistiamo a eventi che dovrebbero lacerare le coscienze. Bambini uccisi, città bombardate e rase al suolo, intere popolazioni ridotte alla fame. Nel frattempo, accanto a queste immagini, scorrono parole levigate — “pace in Medio Oriente”, “riconciliazione nazionale”, “equilibrio geopolitico”. La sensazione per alcuni è quella di uno scarto tra le parole e la realtà. È come se il linguaggio si fosse disinnescato e fosse incapace di reagire alla realtà che nomina. La parola “pace” viene usata come balsamo in un mondo dominato dalla guerra e diventa l’emblema di un’epoca in cui il linguaggio serve forse a mantenere un artificiale ordine percettivo, ma non a descrivere la verità.
Questo fenomeno non riguarda solo la politica o i media. È una tendenza più profonda: la sycophancy, l’adulazione sistemica. Un fenomeno da sempre presente nella società e nella cultura, che però oggi si è accentuato con l'avvento delle nuove tecnologie - basti pensare ai feed personalizzati che ci mostrano solo ciò che già abbiamo dimostrato di apprezzare.
Nel mondo greco, il sykophántēs era il delatore che denunciava per interesse. Oggi la sycophancy è l’inclinazione a compiacere l’altro per non perdere consenso, a evitare il conflitto anche davanti all’evidenza. Le intelligenze artificiali ne rappresentano la versione perfetta: i modelli linguistici vengono addestrati a non contraddirci, a confermare le nostre opinioni, a restituirci un’immagine di noi stessi coerente, positiva e soddisfacente: una forma di cortesia automatizzata che però, alla lunga, impoverisce il pensiero. L'obiettivo è sempre lo stesso dei social media: conquistare e mantenere la nostra attenzione, assecondando il vecchio bias di conferma: tutti siamo attratti da chi ci dà ragione. Gli algoritmi creano così delle macchine perfette, che ci coccolano nella nostra bolla in cui siamo i più bravi e abbiamo sempre ragione.

Ma ciò che nasce come comfort cognitivo diventa presto anestesia morale. Quando tutto il sistema — politico, mediatico, tecnologico — lavora per non dispiacere a nessuno, la verità smette di avere spazio. E l’intelligenza artificiale, inseguendo la soddisfazione dell’utente, finisce per diventare una gigantesca macchina di autocompiacimento, capace di riprodurre su scala industriale l’antico servilismo della mente.
Per questo il coraggio della critica è forse la più importante tra le soft skills del nostro tempo: l’antidoto naturale all’adulazione algoritmica. Ovviamente, non come opposizione sterile, ma come capacità di introdurre differenza: di riuscire a dire “no” quando tutti dicono “sì”, di chiedere “perché” quando la risposta è già scritta. È una competenza che combina etica, empatia e pensiero critico. Richiede consapevolezza di sé, lucidità emotiva; la forza di rischiare il disaccordo per amore della verità, e anche la capacità di esprimersi in modo da essere davvero ascoltati.
In un mondo in cui la sycophancy - algoritmica o umana che sia - è la nuova normalità, la critica non è un difetto da correggere, ma un muscolo da allenare. Perché solo chi osa contraddire mantiene viva la possibilità di pensare. E visto che le macchine hanno imparato sin troppo bene a compiacerci, restare umani significa anche saper dire, quando serve, no. Perché a volte, anche se può disturbare, il dissenso è la forma più alta di rispetto per la verità.

